Vi sono momenti in cui, quale che sia l’atteggiamento esteriore del corpo, l’anima è in ginocchio.
VICTOR HUGO
Frase di per sé ambigua, questa del più famoso romanzo di Victor Hugo I miserabili (1862). Stare in ginocchio, sia interiormente sia fisicamente, può infatti essere anche soltanto un segno di sottomissione al potere o di depressione, riconoscendosi sconfitti oppure diventando adulatori.
Purtroppo è, questa, una tentazione frequente, e sotto le ginocchia si mette la propria dignità e talora persino la decenza, pronti a diventare servi untuosi e ipocriti pur di ottenere quella briciola di successo, di benessere o di potere che tanto è ambita e sognata.
Il senso che, però, Hugo attribuisce alla sua frase e che noi ora vorremmo esaltare è antitetico e positivo. Non è sempre necessario far trasparire all’esterno la nostra dedizione spirituale a una causa.
Questo dovrebbe accadere per la stessa fede che, certo, ha bisogno di testimonianza visibile, ma la cui radice è intima e profonda. Il vano prostrarsi in un culto magniloquente e l’arroganza di un cuore superbo sono in evidente contrasto.
Onorare Dio con le labbra e avere il cuore lontano da lui, come annunciava il profeta Isaia, è uno sbeffeggiare la religione: «Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi; anche se moltiplicate le preghiere, io non le ascolto, perché le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia» (1,15-17).
Solo così l’anima sarà in ginocchio, in un’adorazione genuina gradita a Dio, anche se il corpo sarà impegnato nella società, nel lavoro e nella quotidianità.
Gianfranco Ravasi