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RELEGATE A TREMITI DONNE DELLA CASA DI AUGUSTO IMPERATORE. SULLE ISOLE NON CI SONO STATI SOLO I CONFINATI ANTIFASCISTI

Scriveva negli anni ‘60 Fran­cese delli Muti (Le Isole Tremiti, Torino, Marietti, 1965, pp. 323 ss.): A titolo di curiosità riportiamo qui di seguito, l’elenco dei più impor­tanti deportati politici del tempo fascista alle isole Tremiti, dal 1940 al 25 luglio 1943. I parlamen­tari Finzi, Perreri, Martire, Pertini, Philipson, e Semerar; gli avvocati Bagietti da Brescia, Costa da Napoli Jodice da Caserta, Mancinelli, Magri. Del Re, dott. Adolfo Bolli da Perugia: dott. Demetrio di Demetrio da Trieste; dott. Pincherle: ing. Rodrigo Micucci di Roma; ing Balletta da Genova; Amerigo Dumini da Firenze; Principe Ro­spigliosi da Roma; Casertano (ju­nior); Mossina, Flecchia.

Nel 1943, con la caduta del go­verno fascista, i confinati furono li­berati, e con questo ultimo avvenimento si chiuse definitivamen­te il triste periodo delle deporta­zioni e sull’isola leggendaria sven­tolò il nuovo vessillo della libertà, come ai tempi luminosi dei Cano­nici Lateranensi. I liberatori ingle­si distrussero l’archivio e la biblio­teca della colonia, facendo gran falò nella piazzetta della Posta, ra­gione per cui non abbiamo potu­to rintracciare altri nominativi, né le rispettive motivazioni del confi­ne di ciascun deportato. Per que­sti pochi nominativi pubblicati, ci siamo affidati alla buona memoria del dott. Luigi Mazzilli e di Raffae­le Cafiero, ex usciere della colonia.

Le Isole Tremiti sono anco­ra oggi più note per 1’esistenza di questa colonia penale, la quale però, pur se mantenuta in vita du­rante l’era fascista, era stata in re­altà istituita il 13 giugno 1792 da Ferdinando IV di Borbone, che per essere stato oggetto di uguali vi­cende in tempi ben molto più anti­chi» dato che Carlo Magno vi aveva relegato Paolo Diacono, lo storico longobardo, e, gran tempo prima, vi era stata relegata Giulia ‘mi­nor’ donna, addirittura, della casa di Cesare.

È di quest’ultima vicenda, di cui poco, stranamente si parla, se non dai commentatori dei Tristia del delicato poeta di Sulmona, Publio Ovidio Nasone.

AUGUSTO NON SAPEVA GOVERNARE GRANCHÉ LA SUA FAMIGLIA

Un grand’uomo – e tale era in­dubbiamente Cesare Ottaviano Augusto – può aver fortuna nel ben governare lo Stato e non saper fere altrettanto in famiglia, forse perché le qualità richieste per es­sere ottimo uomo di governo sono troppo dure e rigide per farle va­lere nel più modesto ambito familiare. Nel famoso cammeo di Pa­rigi, che risale ai primi tempi di Claudio Nerone Tiberio, si vede la famiglia Julia-Claudia raccolta in un gruppo felice, sul quale aleg­gia protettore Augusto deificato. In tale veste questi avrebbe volu­to comparire, ma, proprio nell’an­no in cui l’ambizione di tutta la sua vita fu soddisfatta ed egli fu pro­clamato Pater Patriae, apparve a Roma come un pater familias me­diocre.

Le donne avevano recitato una parte di primo piano nella sua casa. C’era stata anzitutto la sua

prozia Giulia, moglie di Caio Ma­rio, della quale lo stesso Caio Giu­lio Cesare aveva pronunciato l’elo­gio funebre, poi la nonna Giulia, sorella di Cesare e la figlia di que­sti, di ugual nome, morta giovane, ch’era stata data in isposa a Cneo Pompeo, di 20 anni più anziano di lei, primo di molti matrimoni politi­ci male assortiti. La figlia di Augu­sto, pure essa di nome Giulia, nac­que lo stesso giorno in cui egli di­vorziò da Scribonia, dei cui perver­si costumi, al dire di Caio Svetonio Tranquillo (Divi Aug., 62), pro­vava disgusto. Le donne della fami­glia Giulia, che l’avevano precedu­ta erano state buone e fedeli, come Ottavia; ma questa Giulia sembra­va aver ereditato qualcosa del­la protervia di sua madre e, a 37 anni, si trovò implicata in un gros­so scandalo.

A quell’epoca Roma era una città difficile per le donne, specie del tipo di Giulia. La loro vita era nel tempo stesso pericolosamente sia impastoiata che libera. Come in tutte le aristocrazie, sosteneva­no una parte notevole nella poli­tica. Figure spesso di primo piano nell’età eroica della Grecia, cadu­te nell’oscurità con la democrazia delle città-Stato italiote, nella so­cietà essenzialmente aristocrati­ca di Roma tornarono a emerge­re. Sotto il regime patriarcale del­la Repubblica, la donna era sogget­ta al controllo del marito, ma persi­no le leggi delle 12 Tavole accorda­vano loro dei diritti e l’eredità inte­stata andava divisa in parti ugua­li tra i figli e le figlie. Con l’andar del tempo l’antica solenne forma di matrimonio era stata largamen­te sostituita da un’altra, che carat­terizzava nulla più d’un sempli­ce contratto personale; il controllo del marito esisteva ormai soltan­to di nome e la donna amministra­va la sua proprietà. Il divorzio di­venne cosa facile e sbrigativa, Una gran dama poteva rimanere buona moglie e buona madre e sostenere al tempo stesso una parte notevo­le nella vita sociale: tale fu Corne­lia, madre dei Gracchi, che tenne un famoso ‘salotto’, tale la nipote Sempronia, implicata nella congiu­ra di Lucio Sergio Catilina. L’ambi­zione del potere fece di alcune di esse delle virago senza sesso come Fulvia, moglie di Marco Antonio, o delle femmine lussuriose come Clodia, ma molte poterono eserci­tare una grande influenza negli af­fari pubblici senza perdere la loro femminilità. “Noi governiamo il mondo – diceva Catone il Censo­re – ma ci facciamo governare dal­le donne”.

Nell’aristocrazia, i matrimoni si facevano per contratto, per ra­gioni finanziarie o politiche, o per entrambe, e potevano essere ac­compagnati o meno dall’amore fra gli sposi. Abbiamo molti esempi di tenera devozione tra marito e mo­glie e il bell’epitaffio su una tomba della via Appia avrebbe potuto es­sere dedicato a innumerevoli ma­trone romane:

Viandante, ciò che ho da dire è presto detto; fermati e leggi fino all’ultimo.

Claudia era il nome datole dai genitori.

Amò con tutto il cuore il ma­rito.

Ebbe due figli; uno ne lascia sulla terra, l’altro seppellì sotto terra. Incantevole nel conversare, gentile di aspetto, curò la casa, filò la lana.

Ho finito.

Prosegui per la tua strada.

MATRIMONI PER CONTRATTO DELL’ARISTOCRAZIA

Donne come Ottavia fece­ro il loro dovere senza lamentar­si, nelle circostanze più tristi. Ma non v’era un matrimonio concluso a sangue freddo con lo stesso esi­to felice. La castità era apprezza­ta nella donna, ma non esisteva un idealismo monogamico bilaterale e il marito poteva divertirsi come meglio gli piaceva senza incorre­re nel biasimo. Per i Romani il ses­so era un puro fatto di natura, con poco alone sentimentale intorno e meno che mai cavalleria, e al loro temperamento era del tutto estra­neo il ‘Fraudendiest ’ medioevale. L’amore era una cosa terribile, una follia tragica come nei drammi gre­ci e nella passione di Caio Valerio Catullo per Lesbia (la scostumata Clodia) o un placido affetto dome­stico o, anche, comune sensualità. In genere, si può dire che il mondo antico pensasse che l’amore non aveva una grande influenza sul complesso della vita. L’unica tra­gedia amorosa nell’Iliade (VI, 160- 164) è la storia di Antea e Bellerofonte, che occupa solo cinque ver­si su 15.000:

Con lui bramò follemente la moglie di Preto, la splendida

Antea, d’unirsi in amore furti­vo, ma non lo persuase,

lui ch’era di retti pensieri, il nobile Bellerofonte.

Essa allora mentendo a Preto parlò, al sovrano:

‘Possa morire tu, Preto, o ucci­di Bellerofonte

NELLA LETTERATURA ROMANA NON CI SONO AMORI PURI

Nella letteratura romana si stenterebbe a trovare un solo ac­cenno a un puro amore giovanile: le Cinzie, le Delie e le Pirre dei po­eti erano soltanto schiave o corti­giane.

Una donna nata in una tale so­cietà poteva, se ben maritata, tro­vare soddisfazione nel marito e nei figli; ma, se così non era, non ave­va altro sfogo che l’ambizione o l’adulterio: poteva volger l’animo o al potere o al piacere. Pare che la figlia di Cesare Ottaviano Augusto possedesse qualcosa della finezza e dello spirito della casata pater­na, ma guastata dai capricci del­la madre Scribonia. Il busto del­la Galleria degli Uffizi a Firenze e la testa del Museo Nazionale a Na­poli ce la mostrano piuttosto bella, ma con capelli scuri precocemente striati di grigio, che le procurava­no una certa amarezza. La sua in­fanzia nella casa del Palatino non può essere stata molto allegra. Livia, sua matrigna, era una donna di vecchio stampo, con idee mol­to rigide sull’educazione dei gio­vani, e Augusto, pur desiderando no di lei. Ne ebbe cinque figli, Caio, Lucio, Giulia minore, Agrippina e, postumo, Agrippa, e sembrava che questo matrimonio potesse esse­re discretamente felice. Giulia ac­compagnò il marito nei suoi viag­gi in Oriente e in uno di essi per poco non annegò nello Scafandro; fu adorata come una divinità in varie città dell’Asia e ciò ebbe un influsso assolutamente negati­vo, perché Giulia era già molto su­perba della sua nascita. Ma v’era, purtroppo, la storia della forte dif­ferenza d’età. Giulia aveva molto tempo libero, quando Agrippa era con frequenza fuori Roma e si di­straeva con la lettura e con vesti­ti sempre nuovi, al punto d’acqui­star la fama d’essere donna stra­vagante, Cominciò pure a frequen­tare troppo spesso suoi coetanei e anche più giovani, tra cui un Grac­co. Augusto ebbe più volte a rim­proverarla, ma mai ebbe tempo di sorvegliarla, sebbene Livia fosse al contrario abbastanza vigile.

LA STORIA SOFFERTA DI GIULIA

Morto Agrippa, Giulia tornò sul mercato matrimoniale censu­rato da Lord Tweedsmuir. Ventottenne, nel 2 a.C. fu sposata al trentunenne Claudio Nerone Tiberio. Questo terzo marito, il cui cuore apparteneva alla don­na dalla quale era stato costret­to a divorziare (v., di Donato Gio­ia, Homo Tiberius, Roma, Sce­na Illustrata, 1978), non era l’uo­mo che ci voleva per una donna così brillante e conscia della sua bellezza, dei suoi augusti nata­li e della sua ricchezza. Pare che tuttavia, inizialmente, essa ab­bia tentato di fare del suo meglio, tanto che lo accompagnò nella campagna nella Superior Provin­cia Illyricorum, al tempo dei Fla­vi poi chiamata Dalmatia, e qui gli diede alla luce un figlio, Ma la breccia che li separava andò a poco a poco allargandosi dopo la morte di questo figlio. Giulia vive­va a Roma frequentando ambien­ti giovanili e sul suo conto comin­ciarono a circolare maldicenze.

Essere un buon padre, aveva trop­po da fare per potersi dedicar mol­to alla figlia. Né una ragazza come lei poteva trovar molto piacere nel­le frequentazioni con gli amici del padre, il grave M. Vipsiano Agrip­pa, l’arido giurista Ateio Capitone o Caio Clinio Mecenate dalle arie e dai gesti raffinati. Pare che da ra­gazzina Giulia fosse in ottimi ter­mini col padre e avesse il permes­so di chiacchierare liberamente con lui e anche di dargli risposte impertinenti. Era tenuta accura­tamente lontana dai suoi coetanei ed era molto superba del suo gra­do sociale.

A 14 anni fu data in isposa al cugino Marcello, ma rimase vedo­va a soli 16 anni e fu subito data in moglie ad Agrippa, molto più anziano.

Spesso era stata vista in compa­gnia di buontemponi ubriachi o ospite attiva di dubbi conviti, Tiberio, che in quanto figlio di Livia, moglie di Augusto, era quin­di pure fratellastro di Giulia, informato di questi scandali, feri­to nel suo orgoglio, ne soffrì mol­to e, non sopportando tale intollerabile situazione, si ritirò a Rodi.

Ma un giorno Augusto fu in­formato da Livia di quanto stava succedendo, si ritenne ferito nel suo onore di padre, di patriar­ca della gens Julia e di capo di Stato, per giunta proprio nel bel mezzo dell’opera d’epurazione morale che stava conducendo a Roma. Non riuscì a tollerare che proprio la sua sola creatura fosse alla testa dei circoli più corrotti della capitale dell’Impero e la de­ferì al Senato, chiedendo che fos­se punita. Dei due amanti di Giu­lia, il primo, figlio di Marco An­tonio e Fulvia, si uccise e il se­condo, Gracco ‘junior’, fu esi­liato. Giulia fu relegata nell’isola di Pandataria (l’odierna Ventotene), al largo della costa campa­na, e poi a Reggio, dove fu lascia­ta morire di fame – si disse – nel 14 d.C. per ordine di Tiberio. Le sue ceneri non furono accolte nel mausoleo imperiale.

LA FIGLIA DI GIULIA SORPRESA IN FLAGRANTE ADULTERIO

Questa tragedia tuttavia non ebbe a finire così. La figlia di Giulia, Giulia minor sposa­ta a Lucio Emilio Paolo, seguì il suo pessimo esempio e, colta in flagrante adulterio il 9 d.C., ven­ne dal nonno esiliata nell’isola di Tremesus (l’attuale isola di S. Domino, nelle Tremiti), sul­la costa apula, dove, non dispo­nendo che del magro sussidio ac­cordatole da Livia, vegetò triste­mente per 20 anni. La sua cadu­ta fu causa della disgrazia di Ovidio, che, forse essendo al cor­rerne dei retroscena, fu manda­to in perpetua relegazione nella Civitas Tomitanorum, sulle cupe rive del Ponto Eusino (v., di Nicolae Lascu, Ovide – Le poète exilé a Tomi, Constantza, Musée d’Archéologie, 1971, pp. 16 ss.). La tragedia delle due Giulie nocque al prestigio di Augusto in Roma: sorse allora un forte par­tito a esse favorevole e quei tri­sti eventi lasciarono nell’animo del princeps una profonda feri­ta, mai cicatrizzata. Per dirla con Svetonio (Div. Aug., 65), Augusto sopportava “con rassegnazione maggiore la morte dei suoi che non le loro brutture”.

L’ulteriore caso della rescis­sione dell’adozione di Agrippa, che non mostrava alcuna attitu­dine se non per il giuoco e odia­va in modo insensato i paren­ti e specialmente Livia e fu esi­liato sotto stretta sorveglianza nell’isola di Pianosa, fu la goc­cia che fece traboccare il vaso. G. Plinio Secondo (Nat. Hist., VII, 150) riferisce che Augusto, nel viaggio compiuto alla vigilia del­la morte, aveva intenzione di an­darlo a visitare nell’esilio, aven­do in animo di tentare una ricon­ciliazione con l’unico maschio del suo sangue ancora vivente.

Con la morte di Augusto si estingueva la gens Julia e a essa succedeva la Claudia, cui Roma dovette Caio Cesare Caligola e L. Tiberio Claudio Nerone.

Emilio Benvenuto