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5 DICEMBRE/ TACERE O PARLARE?

Parla solo in due circostanze: quando si tratta di cosa che conosci bene op­pure quando la necessità lo esige. Solo in questi due casi la parola è preferi­bile al silenzio. In tutti gli altri casi è meglio tacere che parlare.

ISOCRATE

Ogni tanto ritorno sul tema del parlare e del tacere, sia pure da an­golature differenti. È sotto gli occhi di tutti uno strano paradosso: da un lato, si moltiplicano le parole dette e scritte fino a inflazionarsi; dall’altro, mai come adesso è raro scoprire parole vere, che abbiano e diano un senso, al punto tale che la comunicazione genuina è scarsa e si proclama come sindrome del nostro tempo l’incomunicabilità. Og­gi siamo risaliti al V-IV secolo a.C. e abbiamo proposto uno dei consi­gli che l’oratore greco Isocrate indirizzava al discepolo Demonico. Egli contempla due casi nei quali è preferibile la parola al silenzio.

Sul primo siamo d’accordo e non possiamo che ironizzare sul vezzo – che diventa poi un vizio – di interloquire in tono saccente su tutto, con sprezzo del pericolo. Si tratta di un consiglio che un po’ tutti dovremmo coltivare. Purtroppo spesso si verifica quanto affer­ma il famoso detto del leggendario maestro cinese Lao-tzu: «Chi sa non parla e chi parla non sa».

Il secondo caso contemplato da Isocrate ha, certo, un suo fonda­mento, ma suscita qualche perplessità. È giusto parlare «quando la necessità lo esige», non facendo mancare la propria testimonianza o il sostegno o la risposta. Il rischio sta, però, nel fatto che la «neces­sità» può essere simile a una realtà fluida che s’allarga a proprio giu­dizio fino a coprire quasi ogni evento. E, allora, vale sempre il princi­pio di precauzione: «Porrò un freno alla mia lingua…» (Salmo 39,2).

Gianfranco Ravasi