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7 DICEMBRE/ AVER TORTO

Chiunque può riconoscere con se stesso di aver torto. La vera prova è rico­noscerlo di fronte agli altri… Per imparare dai nostri errori, bisogna prima renderci conto che li stiamo commettendo.

            ARTHUR BLOCH

I libri s’intitolano sempre La legge di Murphy e variano solo per l’anno di uscita: da quello del 2000, dovuto a quello strano autore di slogan che si denomina Arthur Bloch, abbiamo estratto due conside­razioni sull’errore e sulla relativa consapevolezza di compierlo. Dobbiamo, infatti, tutti riconoscere di aver sempre faticato ad am­mettere i nostri sbagli davanti a un altro: ci siamo riparati dietro so­fismi, ci siamo arrampicati sui vetri, siamo persino talvolta ricorsi allo sdegno, pur di non dire ciò che dentro di noi bene sapevamo, cioè di avere semplicemente torto. Tutto questo nasce dall’orgoglio, che è il peccato di base, tant’è vero che è alla radice del peccato d’o­rigine, quello del voler «essere come Dio»: non per nulla Adamo, quando è sorpreso dal Signore nella sua colpa, parte subito con un’autogiustificazione insensata.

Ma c’è un’altra annotazione significativa. Per riconoscere un erro­re e forse anche riuscire a trasformarlo in esperienza di vita e in edu­cazione, è necessario averne la consapevolezza. È, questo, uno dei drammi del nostro tempo, la superficialità che genera incoscienza. Non si avverte di fare del male per il semplice fatto che si vive senza riflettere, procedendo a caso e con leggerezza. Quella frase «Che ho fatto di male?» – che lascia spesso disarmato l’interlocutore più av­veduto – è quasi l’emblema di un’amoralità che attecchisce non da una coerenza sia pure perversa ma si nutre di vacuità, di irresponsa­bilità, di frivolezza.

Gianfranco Ravasi