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I CANTI NON PIU’ CANTATI DI S. MARCO IN LAMIS

Con testarda abnegazione Grazia Galante con­tinua a raccogliere materiale folclorico nella sua San Marco in Lamis. Penso a lei e mi tornano alla mente certe figure di non ad­detti ai lavori che si sono meritati ima medaglia sul campo per ciò che hanno raccolto, medici come Giu­seppe Pitrè e Gerardo Pasquarelli. Entravano in molte case dove avevano pazienti da curare e se ne uscivano carichi di informazioni e di reperti di una cultura che a breve sarebbe stata cancellata definitivamente. La Ga­lante ha raschiato il barile in molti settori della cultura popolare. I proverbi editi da Malagrinò nel 1993, la cucina tradizionale, la religiosità popolare, le fiabe e le favole, i giochi giocati e persino un voluminoso Di­zionario del dialetto di San Marco, costruito col fratello Michele. Io credo che la comunità di San Marco in Lamis le debba qualcosa, o forse molto, una comunità straordinariamente combattuta tra certa violenza abigeatara e genialità creativa. Non va dimenticato che Joseph Tusiani e Tommaso Nardella sono nati lassù e su di loro si stanno assiepando studi e indagini, ultimi due volumetti di ricordi per entrambi offerti da Raf­faele Cera e dalla figlia di Nardella. A San Marco operano Cosma Siani e soprattutto Antonio Motta fon­datore dell’archivio della Letteratura del Novecento, curatore delle opere di Leonardo Sciascia e il solerte Sergio D’amaro che oltre ad occuparsi di Carlo Levi e ad aver fondato la rivista “Frontiere” rivolta al tema dell’emigrazione, è un poeta di qualità.

Cinque anni fa la Galante pubblicò una prima rac­colta di canti popolari, La vadda de Stignano, che oggi vengono arricchiti da una nuova raccolta di canti, editi da Andrea Pacilli di Manfredonia, accompagnati da un CD con trascrizione musicale di Michelangelo Martino e introduzione di Saverio Russo: La vadde de Stignane e altri canti popolari di San Marco in Lamis. Un testo che raccoglie molti canti di vario genere.

Certo, questi canti non li canterà più nessuno, ma andranno ad arricchire le biblioteche di quanti si oc­cupano di tradizioni popolari e di coloro che vorranno custodire in casa parte del patrimonio popolare del Gargano o della città di San Marco. Nel tempo di­venteranno preziosi e memoriali come i versi della Scuola Siciliana o dello Stil Novo, ma di fattura po­polaresca. La moria iniziò con l’arrivo della radio e fu completata dall’ingresso in tutte le case della televi­sione. La gente non canta più, come se una pandemia più lunga e più grave del Covid 19 abbia invaso il mondo con l’ingresso del Novecento. Ma lo strano è che in questa stagione in cui la musica leggera sembra abbia decisamente scelto di esprimersi in lingua anglo americana, non si canta proprio più, e le strade sonno diventate mute. Le bocche restano chiuse e solo c’è spazio per il sabba da discoteca o per le esercitazioni collettive da sabato fascista. A cantare per noi è la televisione e sono i social.

Le raccolte di canti popolari sono antologie di una poesia che era un tempo la vita stessa dei paesi, si irrideva la chiesa e i ricchi, si irridevano i difetti delle persone, si bisticciava attraverso le canzoni e i con­trasti a dispetto e si cantavano lodi per i santi o si chiedevano miracoli e si ringraziavano gli altari per un miracolo ottenuto. Soprattutto si portavano serenate, accompagnati da un concertino e si questuava la sera di Capodanno e del sabato santo. Tutto veniva chiosato da una rima, da un’improvvisa accensione della ra­gione e del cuore. Grazia Galante è per questa ragione che ha voluto in circa trent’anni di attività raccogliere tutto ciò che espresse un mondo contadino ormai spa­rito o in via di sparizione, consapevole che tutto ciò che non si raccoglie va disperso irrimediabilmente. Alcuni sono canti databili per i riferimenti interni, come que­sto nato nel 1948 : E ll’anne lu quarantotto/ime fatte na grande lotta/cu Ggesù e ccu Marìa/ha vvinciute la Democrazzija”. Oppure questo canto comunista :”Sul mare luccica l’astro d’argento/la Democrazzija quant’è fetenta/…Ma noi gridiamo in fitta schiera/E’ sempre bella rossa bandiera”. O questo canto della stagione delle grandi migrazioni “Li megghiere li mereca- ne/vanne alla méssa cu ssette suttane/ ce nghenoc- chiene e prejene Ddei,/manna quatine,marite mija”.

Ma tanti altri, e sono la maggior parte, non hanno una data di nascita, sono canti nati lungo il corso dei secoli e riportano le sofferenze di amori inascoltati, richieste di corresponsione d’amore, riferite da anziani, come questa quartina: “Bella donna che llave li panne/lavamille stu fazzulette/e lavamille pulite e nett/ dmnane matina te lo pagherò”. Grazia li divide in canti per ballare la tarantella, altri satirici e sono i più, canti calendariali, legati cioè alle ricorrenze dell’anno, altri canti di lavoro, dell’emigrazione, politici e di soldati. E canti alla rovescia, ovvero irreali e stralunati. A tutto questo aggiunge gli spartiti per poter conservare l’in­tonazione musicale e una serie di disegni affidati alla maestria di Giuseppe Ciavarella che prova a raffigu­rare la sonagliera, le castagnole, il flauto di Pan, il triccheballacche, uno strumento che non ha una tradu­zione in italiano e lo zicchetebbù, che Grazia traduce come tamburo a frizione ma che non trova adeguata traduzione italiana, se non in un sinonimo dialettale come putipù.

Raffaele Nigro

gazzettamezzogiorno