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VIESTE/ VIAGGIO NEGLI ANNI DAL 1943 AL 2013. IL PANE FATTO IN CASA E IL PANE DI PIAZZA (15)

C’è chi dice che il Medioevo, per alcuni aspetti, da noi è finito dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi all’evoluzione del fare il pane. I viestani, e chissà quanti altri, fino a sessant’anni fa nella grande maggioranza mangiavano il pane fatto in casa. Gli indigenti, e qualcuno che tale non era, per sfizio, compravano giornalmente al forno o in negozio “il pane di piazza”. I proprietari dei campi seminati a grano facevano macinare quello di loro produzione, gli altri cittadini lo compravano, o compravano la farina: un sacco o mezzo sacco alla volta. A fare il pane pensavano le donne di casa, tradizionalmente ogni sette-otto giorni. Era la loro croce e non delizia. La rassegnata casalinga si alzava verso le tre-quattro di notte, sistemava in cucina, sotto la lampada, la capiente madia (rattaplà o fazzator? per i viestani)e dentro distribuiva in cerchio da 10 a 20 chili di farina, secondo il numero dei componenti la famiglia. In mezzo al cerchio versava dell’acqua, spesso quella di mare per risparmiare il sale, evitando il controllo della Finanza (essendone proibito il prelievo), poneva il crescente, ovvero il lievito, predisposto la sera prima, e impastava il tutto. Coagulato che s’era, diventato la “massa”, ficcava dentro i pugni a ritmo costante, rigirandola ogni tanto e aggiungendo un po’ di altra acqua, fino a rendere perfetto l’amalgama. Dopo averla lasciata “crescere” per due-tre ore, resinava, cioè ritagliava le pagnotte da mandare al forno. Dal quale poi uscivano cotte a dovere. Anche il lavoro del fornaio cominciava dalla sera prima. Scorrono nella memoria i personali ricordi e la rievocazione che me ne fa uno degli ultimi fornai di Vieste, Peppino Carofiglio, 89 anni, una lucida memoria. Verso l’imbrunire, ciascuno di loro faceva il giro delle strade vicine al proprio forno dando avviso di sé con uno squillo della trombetta che teneva appesa al collo. Chi l’indomani doveva fare il pane lo chiamava e si faceva lasciare la “tavola”, un’asse di legno lungo circa due metri su cui posare le forme di pane da cuocere. All’una di notte il fornaio si alzava e andava al forno a rinforzare con altra legna il fuoco (non si lasciava mai spegnere del tutto) e a preparare quant’altro serviva per il lavoro. Iniziava così la sua giornata. D’inverno era ancora buio quando arrivava nelle case a ritirare le forme di pane. Si poneva la rotella di panno sul capo, equilibrava la “tavola” e via di buon passo al forno. Così di casa in casa finché non completava il giro. La prima infornata aveva luogo alle quattro del mattino, la seconda alle otto. Certi giorni si faceva una sola infornata. Ritto davanti alla bocca del forno, il bravo fornaio v’infilava spesso la pala per girare le pagnotte affinché venissero cotte uniformemente. Una volta sfornate le rimetteva sulla tavola e di buon passo tornava a casa della cliente per la consegna.  In queste odorose case del pane s’infornavano altresì taralli (nei giorni della festa patronale di Santa Maria i forni restavano aperti ininterrottamente, tanti erano i taralli da cuocere), e poi fichi e pere per farne fichisecchi e peresecche, che si conservavano per l’inverno, e fave, mele cotogne, carrube, olive, castagne. Frequentissima compagna del pane era la pizza col pomodoro, alta due dita, morbida, odorosa, tanto più gradevole quanto più riusciva di color rame. A ripensarlo adesso, demitizzato della suggestione sacrale che avvolge il pane quando esce dal forno, il lavoro del fornaio aveva qualcosa di infernale. Non per la facile similitudine di chi vi era addetto con gli inquilini del fuoco eterno, ma per quanta fatica doveva fare. Dall’una di notte alle quattro del pomeriggio egli lavorava 15 ore, cioè due giornate sindacali in una, l’equivalente di certi prodotti moderni che ne prendi due e paghi uno. Tanto faceva per campare onestamente la famiglia.  In passato dovettero esserci dei titolari di forni che godettero di generale considerazione, visto che nella nostra città tre vie ne recano il nome: Forno Danelli, Forno De Angelis e Forno Santoro. Il primo forno elettrico fu aperto a Vieste nel 1938, dai fratelli Caruso. Fino ai primi anni del dopoguerra bastò a soddisfare la richiesta cittadina. Poi non più. Le casalinghe stavano perdendo la voglia di fare il pane in casa e per le figlie guardavano al diploma. Di conseguenza aumentò la vendita del pane di piazza. Negli anni 50 aprì un secondo forno Giovanni Latorre.

Al principio degli anni 70 di forni a legna aperti erano rimasti soltanto due: quello di Peppino Carofiglio in Via Tordisco e l’altro di Michelantonio Zaffarano in via Santa Eufemia. Durarono sino al 1977, per i pochi superstiti sentimentali del pane fatto in casa. Ma per i fornai, di pane da guadagnare ormai ce n’era ben poco. Infornavano in una giornata da 40 a 50 chili, troppo poco per campare la famiglia. Così quell’anno entrambi smisero l’attività. Quasi per hobby, continuarono a infornare taralli e altre cosucce fino al 1984, poi cessarono del tutto.

Le persone che hanno superato i cinquant’anni ricordano, chi più chi meno, i nomi degli ultimi otto forni a legna di Vieste e la loro ubicazione, qui riportati di seguito insieme ai due già citati:

Bevilacqua Paolino in via Forno Danelli; Carofiglio Peppino, via Tordisco; Carofiglio Sante, via Chirurgo Dell’Erba (poi in via F.lli Cocle); Carofiglio Michele, via F.lli Cocle (già chiuso, crollò nel ’58); Chionchio… detto Friscomino, via Dott. Giuliani; Ricciardelli Pasquale, vicino la chiesa cattedrale; Ricciardelli Sebastiano (Vastianin) via Fontana; Zaffarano Michelantonio, via Santa Eufemia.

Spenti i fuochi dei suddetti forni, finisce a Vieste l’epoca dei forni a legna per il pane. A ricordarli, insieme ai nomi di quei fornai e al pane di allora, sono rimasti nel nostro linguaggio alcuni proverbi. Uno è riferito a persona che per necessità o per congenita irrequietezza si muove continuamente. Di lui si dice che “gir turn turn com la pael du furn”. Un altro rassicura chi si lamenta del caldo eccessivo che “n-sciuna furner è murt d’calt”. Un terzo, nato nel tempo in cui il pane di piazza lo comprava chi non aveva i soldi per il sacco di farina, si usava per sottolineare che la salute è più importante della ricchezza, poiché augurava “salut e paen d’ chiazz”.

A causa della crisi economica che da quattro-cinque anni investe l’America e l’Europa, che ha causato, tra l’altro, il rincaro del prezzo del pane, a qualcuno è balenata l’idea di rimettere in onore il pane fatto in casa. In una puntata di “Uno mattina”, ne hanno discusso tempo fa alla TV la conduttrice, una giornalista e una signora esperta di come si fa. Che ne ha dato una dimostrazione. Però lo ha fatto non nella madia, all’uso antico, ma con uno strumento nel quale basta introdurre la farina, l’acqua e il sale, che a tutto il resto pensa lo stesso strumento. Anzi, quasi tutto, perché poi bisogna infornarlo.

Ci saranno signore disposte ad avventurarsi nell’operazione?

Ludovico Ragno

Pensierino di Natale

Come ogni anno, da molti anni, nelle vetrine e dentro i supermercati e i negozi si rinnova l’ondata di panettoni e dolci vari, di oggetti da regalo, di Babbo Natale e di tappeti rossi all’ingresso. Ma il festeggiato dov’è? Si, lo so, l’immagine, la presenza del Redentore è nelle chiese, sua dimora terrena d’ufficio. Ma io mi domando se lo sentiamo anche nei nostri pensieri, nei nostri cuori, nelle nostre conversazioni. Spero di sbagliarmi, ma penso di rado.

 Se oggi buona parte del mondo è investito da un turbine di cattiveria e dal rifiuto di quei valori morali e religiosi all’ombra dei quali siamo nati e cresciuti; se nella nostra cara Italia è diffuso più di altrove il travaglio economico, che maggiormente danneggia i giovani, la cui vita è sempre più complicata, la scelta della professione o del mestiere difficile, l’avvenire incerto; se nella nostra amata Vieste, da parte della popolazione e a livello comunale si avverte un forte disagio; se tutto ciò avviene per colpa della globalizzazione, dell’euro, delle ingiustizie, di tutte queste cose messe insieme, allora succede che avviene pure, come è avvenuta, la rivolta dei forconi e di altri movimenti.

Ciononostante, non dobbiamo gettare nel rogo le nostre speranze, la nostra volontà di riprenderci i valori anzidetti, di costruire un modello di vita organizzata onesta ed equilibrata. Ogni persona può dare un contributo in tal senso, per quanto piccolo sia, con il proprio comportamento. Volere è potere.

A Natale festeggiamo compiutamente il Bambino nato a Betlemme se attingiamo dal suo insegnamento materia e forza per il nostro agire.

Nello striscione posto su tanti presepi campeggia la scritta Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà.

Con l’augurio di Buon Natale ai nostri lettori e a tutti i concittadini, stimolato dal richiamo alla “ buona volontà” di sopra il presepe, mi permetto di aggiungere un incitamento ai nostri civici amministratori, maggioranza e minoranza, a voler evitare nei dialoghi la contrapposizione pregiudiziale, attenersi al confronto sereno e obiettivo delle argomentazioni, e concordare risposte adeguate agli affari comunali di questi anni difficili. Ne guadagnerà di certo la comunità cittadina, e ne saranno ripagati di stima, fors’anche di autostima, i protagonisti.

Cordialmente, Ludovico.

15 (continua)

Ludovico Ragno

Il Faro settimanale